Nei mesi della pandemia, nell’impossibilità di compiere i gesti intimi del commiato, si è avvertita più potentemente la mancanza di un tempo, di un luogo e di un atto condivisi per celebrare il passaggio.
Tracce di una ritualità perduta, con particolare riferimento alle nostre tradizioni, hanno così animato il principio della ricerca che, forse per questa ragione, ha privilegiato il movimento e l’azione coreografica piuttosto che la parola, maturando via via la convinzione di quanto difficile per quest’ultima, sia trattare quella frontiera: quella soglia che partecipa alla vita dandole compiutezza, tanto da essere in alcune culture festeggiata.
Così è nato il titolo Kampai che include la k, richiamando l’esclamazione con cui i giapponesi brindano “alla vita” e l’aver campato, l’aver vissuto: obiettivo non scontato per nessuno. I nostri personaggi – tre figure femminili – disegnano quella minima geografia necessaria all’evocazione del commiato.
Presenti: una vita addolorata, una morte prematura e chi, per volontà o “incarico”, ha il compito di custodirne la delicata relazione. No, non sono simboli ma persone, con quanto comporta a proposito di sentimenti, fragilità ed altro.
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